mercoledì 31 maggio 2017

Ebbene sì, maledetta Carter



Seriamente: è un film che parla di una semidea nata sull’isola che non c'è, allevata da una schiatta di amazzoni e in grado di sollevare un tank come fosse un giocattolo. Il punto non sta nell’aderenza al mito o alla Storia, peraltro già piuttosto laschi di loro, data la necessità di condensare settantacinque anni di fumetti non sempre eccezionali in due ore di film. Semmai, ha a che fare con l'equilbrio fra i due estremi noia/divertimento, vista la dieta forzuta e forzata di pellicole super-eroistiche cui le major ci stanno abituando ultimamente. E a scanso di equivoci, Wonder Woman la sua parte pallosetta ce l'ha: il finalone fine di mondo a base di sganassoni con un cattivo che il casting avrebbe voluto sorprendente e invece suona sorprendentemente fuori contesto e carismatico quanto un boss di God of War. Ma questo è un destino comune al 90% dei cinefumetti, non un'esclusiva del nuovo film Warner. 

Per il resto, aurea mediocritas, con una pellicola che sembra un curioso mashup fra Capitan America – Il primo vendicatore, Animali Fantastici e un classico feuilleton amore e guerra tipo Vite sospese. Gal Gadot è davvero uno spettacolo e regala al personaggio bellezza, carisma e simpatia: non era scontato. Ma al lasso dorato e ad altre bubbole terribilmente agre disseminate lungo le due ore e venti del film paiono crederci poco sia la protagonista, sia il cast di contorno, sia la regista Patty Jenkins, che infatti qua e là offre al pubblico un certo non so che di “buona la prima”. Sprazzi di divertimento puro nel cast multietnico, nelle schermaglie con il bellimbusto Chris Pine, nei bassifondi di Londra. E qua e là, qualche stecca che le pennellate da commedia sentimentale sintoniche al personaggio e al film non bastano a nascondere.

Fosse capitato in mano a un regista di forte personalità, Wonder Woman sarebbe potuto diventare una chicca. Così com’è, resta un compitino beneducato, superficiale e non sempre perfettamente a fuoco. Che però ha il merito principale di aver dato un senso nuovo a un personaggio decrepito e fiaccato da decenni di brutta televisione. Di buono, portiamo a casa le premesse per una cosiddetta brand extension che con un po’ di coraggio e visionarietà in più potrebbe fruttare sviluppi narrativi interessanti, sempre che il pubblico segua. Chi si straccia le vesti potrebbe guardare a questo, piuttosto che ai difetti del film: rispetto ai telefilm con Lynda Carter o all’orribile Catwoman di Pitof, il bicchiere è mezzo pieno. Un brindisi ci sta.

mercoledì 24 maggio 2017

Arremba, che sorpresa


Difficile, sempre più difficile azzardare un’opinione sul medio blockbuster in uscita. E forse, in ultima analisi, inutile. A differenza che nel fumetto o nelle serie Tv, in cui scrittori, artisti e sceneggiatori tentano di infondere ai propri progetti un’impronta unica e distintiva, per larga parte delle produzioni hollywoodiane più recenti l’imperativo sembra l’omologazione. Perfettamente logico, nell’ottica di un sistema produttivo che tenta di offrire uno standard di prodotto godibile e fruibile a ogni latitudine. Tremendo, per chi deve scriverne: perché scrivere di questo cinema è un po’ come mettersi a disquisire sulla qualità degli hamburger delle grandi catene. È più un discorso alla dentro o fuori: stare al gioco oppure no.

Discorso valido anche per questo quinto Pirati dei Caraibi. Un film rimasto in development hell dal 2011, costato un badalucco di quattrini e ovviamente costruito per infondere nuova linfa a un serial che dopo l’abbandono del visionario Gore Verbinski sembrava pronto per la rottamazione, in parte anche per le alterne fortune di Johnny Depp, un mcguffin umano bello e dannato però apparentemente ormai pronto allo status di bello d’annata. Duecentotrenta milioni di dollari dopo, eccoci qui di nuovo. C’è un nuovo cattivo soprannaturale che ha qualche conto in sospeso con lo stralunato Jack Sparrow. C’ê la damsel per niente in distress che tenta di trovare un senso alla propria vita. C’ê il giovane belloccio in odore di bildungsroman. C”è il cast di contorno all’altezza. Ci sono due-tre saggi di funambolismo visivo più che discreti. Ci sono i mostri, i mostrilli e i mostriciattoli. C’è la pestifera scimmia cappuccino dei film precedenti. Ci sono i cetriolini, la maionese, le patatine e tutto il resto.

L’idea, insomma, non è quella di sorprendere lo spettatore, semmai quella di rassicurarlo con un nuovo soft reboot in stile Episodio VII, un film che è una sorta di best of dei primi tre che punta a convertire alla pirateria quei ragazzini che all’epoca dell’ultimo On Stranger Tides erano ancora nei sogni di Dio o chi per lui. Non un piano disprezzabile, né sgradevole per carità, perché questa Vendetta di Salazar galleggia sulla solida professionalità dello sceneggiatore Jeff Nathanson, sulla piacevole gigioneria dei cattivi Javier Bardèm e Geoffrey Rush, su un impianto produttivo da vero blockbuster e non da Tv Movie sotto steroidi tipico di troppe produzioni. Ma al prossimo giro, se capita, un po’ di sorprendenza in più non ci starebbe male: a conti fatti, è del pirata il fin la meraviglia.

domenica 7 maggio 2017

Prometheus mantenuta



Dopo sette film non tutti eccezionali e con il principale cervello della saga alla soglia degli ottant’anni, è perfettamente normale farsi qualche domanda sul senso di un’operazione come Alien – Covenant. Troppo cocente la delusione di Prometheus, troppo intenso il brivido connaturato al rischio di sorbirsi il nuovo, inutile capitolo di una serie che ormai il meglio di sé lo offre sulle console di gioco o fra le pagine dei comics. 
D’altro canto, non puoi fare una frittata senza rompere le uova. E nel caso delle uova per eccellenza, la sfida era duplice: dare un senso compiuto alla sublime idiozia del prequel e creare le premesse per una prosecuzione del discorso.

Missione compiuta? Ma sì, dai. Certo, la Weyland-Yutani non perde il vizio di fare recruiting nelle barzellette dei Carabinieri. Un principio di realtà, questo, che vanifica l'efficacia di tanti, troppi snodi narrativi. Covenant, però, trova una sua identità distintiva nella caratteristica che ha fatto la fortuna dei migliori episodi della serie: l'estetica del male. Nella visione dello scriptwriter John Logan (“Il Gladiatore”), la creazione degli Xenomorfi perde ogni caratteristica "fantascientifica" per assumere contorni da incubo alchemico. Se metafora dev’essere, sembra aver pensato Scott, che sia senza tempo: ed ecco un’avventura che usa linguaggi alla Mary Shelley per dare corpo e sostanza a tutti i caveat su quello che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale potrebbe combinare al cosiddetto capitale umano nei prossimi decenni, da Norbert Wiener a Jack Ma a Stephen Hawking. L'amorale della fava è sempre la stessa: inutile cercare cattiveria negli Xenomorfi, "homunculi" futuribili: come ribadito più volte dal 1979, il nemico è dentro di noi.

Il resto è un curioso miscuglio dei primi tre episodi della serie (soprattutto il terzo), con le sicurezze dei valori produttivi garantiti da una macchina all’altezza, ma anche con la novità di un armamentario narrativo junghiano di brutto. Fra discese agli inferi, doppi, antri umidi e maternità archetipiche, Covenant colpisce abilmente dove fa più male, un’eco che negli ultimi, stanchi episodi del franchise si era fatto ormai impercettibile, e che in questo film torna a riverberare in sincrono con il classico tema di Jerry Goldsmith. No, non è un film perfetto, questo. Ma è un ritorno che tenta un punto di vista originale, un tentativo di ibridazione mostruosa sufficientemente in palla da valere il prezzo del biglietto.