martedì 31 gennaio 2017

È facile se sai come farlo



Che poi, è impressionante il salto quantico compiuto dal cinema italiano negli ultimi 10 anni: si è passati dalla modalità binaria cinema scorreggione/mattonata pretenziosa a una generazione di cineasti che stanno lentamente ma inesorabilmente riscoprendo i generi. Merito, forse, di precursori come Gabriele Salvatores o Giuseppe Tornatore, che però hanno sempre dato l'impressione di esser tipi da quartieri alti. Merito, sicuro, di Stefano Sollima, che da Romanzo Criminale a Gomorra ha shakerato a dovere le certezze di tanti produttori. Ecco dunque ACAB, e Jeeg Robot e ancora Mine. E soprattutto, Smetto quando voglio di Sidney Scibila, una ideuzza ben riuscita di un paio di anni fa che è letteralmente esplosa in mano ai suoi creatori con la storia molto contemporanea di un gruppo di ricercatori che per tirare a campare in un'Italia affatto meritocratica si butta nella produzione e nello smercio di Smart Drugs. Molto I soliti ignoti, un po' Romanzo Criminale, la gang ha fatto il suo e adesso si ripresenta al pubblico con un secondo capitolo. Il limite maggiore di Masterclass sta nella struttura, ostica per chi non ha visto il primo film, semplicemente traditora per chi magari non prevedeva di vederne un terzo: perché a un certo punto la storia si interrompe e basta, ci vediamo al prossimo spettacolo per vedere come va a finire, manco fossimo la Trilogia dell'Hobbit. Una deriva da mercato estero, insomma. Che però, per osmosi, è percolata anche nello script, dando spessore, solidità e concretezza a gag, svolte drammatiche, invenzioni e scene d'azione, consegnandoci un film leggero ma maledettamente universale. Scibilia supera in scioltezza il confronto con un budget più ricco e una trama più articolata senza risparmiarsi qualche salutare colpo basso e dando il giusto spazio a tutti i membri dell'armata brancaleone contemporanea. Qualche sbavatura nella direzione degli attori, che qua e là dà una certa impressione di "buona la prima", e in una colonna sonora troppo paracula e invadente: ma in termini di spettacolo e pura confezione, un centro pieno e una nuova conferma della rinascita di un cinema italiano leggero ma non stupido, e in grado di raccontare storie. Roba che non si vedeva da molto, troppo tempo.

giovedì 12 gennaio 2017

Gli alieni al tempo del kaffeee

Gira e rigira, siam sempre lì
Arrival è due film in uno.
Quello convincente è praticamente Incontri ravvicinati aggiornato ai nostri tempi, un volo pindarico nella pancia del Pianeta. Metti che un giorno improvvisamente ai quattro angoli del mondo compaiano delle astronavi aliene alte centinaia di metri e totalmente indecifrabili, come reagiremmo noi terrestri?
La risposta è sostanzialmente Buongiornissimo kaffeee. E la metafora neanche troppo nascosta punta tutto sulla paura del diverso, sullo spirito becero dei tempi, sul terrore delle merdose realtà ineluttabili della vita che Denis Villeneuve di Sicario inquadra con una tavolozza desaturata degna del miglior cinema recente.
Poi c'è la parte più fragile della storia. Una sottotrama troppo esangue, che svela le sue carte troppo in fretta e allo stesso tempo troppo lentamente, traino di un discorso sulla relatività del tempo ormai nel DNA di tante pellicole di fantascienza da 2001: Odissea nello spazio a Interstellar. E che però il regista affronta con un senso di solennità assolutamente sproporzionato alla ciccia narrativa fornita dal racconto breve di Ted Chiang all'origine del film, mai all'altezza di un lungometraggio di due ore. Praticamente, la montagna con tutto il topolino.
Compresso fra questi estremi, Arrival si illumina a intermittenza. Uno spettacolo affascinante, ma diseguale, che trova il suo limite più macroscopico in un autocompiacimento degno del The Revenant di Inarritu, ma senza la stessa capacità di scavarsi la strada con le unghie e gli artigli fra gli istinti primordiali dell'animo umano e con un retrogusto consolatorio che ne limita le potenzialità. Alieni bellissimi, però, e un comparto visuale molto sopra il budget bassino. Accontentiamoci.