sabato 13 aprile 2013

E dopo Diego, Frida.

La Casa Azul.
La guida ci dice che per visitarla mezz'ora basta e avanza, perché è poca roba.
In effetti, escluso il patio, gli spazi interni non superano i trecento metri quadri. Non molto, considerando che oltre a Frida la casa ha ospitato papà Guillermo, fotografo ufficiale del porfiriato, più mammà, più le sorelle Cristina, Matilda e Adriana, più un sacco di altra gente che capitava qui per dipingere, bere tequila, fumare, mangiare, dormire, cazzeggiare, discettare di magnifiche sorti e progressive.
Le camere di Frida e Diego sono sorprendentemente spoglie. Letto, armadio, qualche suppellettile, le maschere della tradizione e le sculture si cartapesta colorata, le campiture immacolate delle pareti sporcate solo da qualche dedica in rosso che incornicia i soffitti. La cucina con la tavola, le piattiere e le brocche. Eccentricità da artisti, neanche a parlarne. Una classica casa borghese, con qualche tocco di colore in più, ma senza eccessi. Una casa che accoglie, nasconde, abbraccia. Una casa museo che non sembra un museo, ma una casa.
Lo studio è al secondo piano, un corridoio di una quarantina di metri quadri con una vetrata che dà sul patio. A sinistra, contro la parete, una libreria. Saggi, reference, cose così. Al centro, un lungo ripiano, e gli attrezzi del mestiere. Il cavalletto, le risme di carta, i pennelli, le scatole con i pastelli a cera, le boccette di colore o diluente, le spatole, qualche piccola tela non troppo impolverata.
Le cose di Frida la raccontano molto meglio di tante biografie. Materassi piccolissimi, più di quanto immaginassi. Il letto a baldacchino con lo specchio che usava per gli autoritratti. Il guardaroba fitto di scialli e costumi coloratissimi per le quotidiane recite a soggetto. La vetrinetta stipata di biglietti, miniature di terracotta, scatole di cerini, rossetti, ditali, libriccini, portapillole, altri libriccini, forcine, braccialetti, specchietti, sigarette. C'è anche un minuscolo kitschissimo cessetto posacenere, che sembra ispirare la retorica indignazione del ritratto di Lenin che sbiadisce appoggiato sopra il piccolo mobile.
I busti. Sembrano scomodissimi. Ne conto quattro o cinque. Cuoio, metallo, cinghie e poi le coppe del decolleté. Accarezzo con lo sguardo la curva di un seno che mi sembra troppo florido da occultare sotto un abito maschile, come aveva fatto a suo tempo Frida per riuscire a iscriversi alla "Prepa", scuola riservata ai maschi. La vista della protesi che le era toccata dopo l'amputazione della gamba si porta via ogni eventuale tentazione maliziosa. Anche lì, però: la scarpa della protesi è rosso fuoco, con una discreta zeppa. La prima gamba finta sexy mai vista in vita mia.
Finalmente, i quadri. Non molti, per la verità, e neanche uno dei più famosi, che sono tutti al museo Dolores Olmedo, a qualche chilometro da qui. Un piccolissimo autoritratto realizzato colorando a olio una fotografia. Un paio di nature morte. Qualche ritratto di famiglia. E un autoritratto che non avevo mai visto: una Frida languida, serena, quasi sorridente, molto lontana dall'icona dolente e militante della tradizione.
Un'immagine troppo intima per essere condivisa, e forse lasciata lì incompiuta proprio per questo. Un fantasma, bellissimo, che mi porto via.

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